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giovedì 16 gennaio 2014

#2 Avant l'apocalypse

La surreale calma del forte ebbe vita breve.
Chiamarono con il normale telefono di servizio. Chiesero del comandante, ma aveva, come quasi tutti gli ufficiali del resto, abbandonato il forte per darsi alla guerra clandestina. Toccò al sottotenente ingegnere Matignon, delle forze ausiliarie, parlarci.
L'uomo al telefono, che si qualificò come "Tenente colonnello Gilbert, incaricato del governo francese per l'attuazione delle clausole d'armistizio" annunciò che una squadra d'ispezione sarebbe arrivata al forte nel pomeriggio.
Ci aspettavamo di dover uscire a uno a uno con le mani in alto, sotto il tiro di un battaglione schierato della Wermacht. Ma non fu così. Con nostra grande sorpresa, ad arrivare furono mezzi e uomini dell'esercito francese. Solo una Kubelwagen e due sidecar tedeschi li accompagnavano, ma stettero in disparte per tutto il tempo mentre gli ufficiali francesi ci spiegavano come lasciare alla loro custodia l'Ouvrage corazzato, e ci indicavano i mezzi su cui salire assieme al nostro equipaggiamento per esser riportati a valle.

Fu così che entrai a far parte delle forze armate della Francia di Vichy, sempre in servizio come geniere. I rappresentanti del nuovo stato francese ci dissero che Pétain lavorava per tutti noi alla realizzazione della pace e che avremmo continuato a servire il paese, adesso assieme all'alleato tedesco, ognuno secondo le proprie competenze.
Venni quindi riassegnato al servizio e trasferito nell'Aquitania interna, ancora sotto controllo francese, lavorando al controllo della manutenzione di infrastrutture ferroviarie. Esattamente il mio vecchio lavoro alla SNCF, solo ora con una divisa addosso e per un altro padrone.

Per il primo periodo mi sentii fortunato: avevo, nonostante tutto, ripreso quasi del tutto la mia vita. Facevo esattamente quel che facevo prima, ovvero vidimare documenti e controllare certificati, con qualche saltuario sopralluogo, e mi pagavano. Certo, la famiglia era lontana, ma sarebbe potuto andar peggio.
Lentamente, però, vedendo ciò che stava accadendo al mio paese straziato, una sensazione mai provata prima iniziò a farsi strada in me: quella di essere dalla parte del torto. Giorno dopo giorno, ma in modo inesorabile, cresceva in me la convinzione che, se i tedeschi ci avevano invaso, non era per il nostro bene, e quindi collaborare con loro, semplicemente, non era giusto. Ovviamente mi guardai bene dall'esternare la cosa, e continuai a svolgere i compiti che mi venivano assegnati, nascondendomi nella mia coscienza dietro al dito del "non ho avuto scelta". Mi dicevo che sarebbe stato impossibile per me rifiutarmi, e per cosa poi? Per morire di fame o essere arrestato forse? Ma ero consapevole che, se avessi voluto, avrei potuto farlo. Non lo avevo fatto, però.

La svolta arrivò, mio malgrado, nella primavera del '42. Ricevetti una telefonata in ufficio che pareva del tutto normale, ma non lo era. La voce dall'altro capo del telefono, che si presentò come "Jerome" disse che "era per me l'ora di svegliarmi un pò, e mettermi a far finalmente qualcosa di buono per il paese tutto", suggerendo sibillinamente che "altrimenti anche io sarei potuto finire in guai seri".
Era il mio primo, sicuramente sconvolgente, contatto con i Maquis. Da quel momento iniziai, dapprima obtorto collo, poi con sempre maggior convinzione, la mia collaborazione con la resistenza.

Il mio compito era quello di infiltrato. Ricevevo le comunicazioni da Jerome, sempre attraverso il telefono dell'ufficio. Non ho mai capito come facesse a farsi passare la linea, ma probabilmente non ero l'unico collaboratore che avevano nell'edificio. Rispondevo al nome in codice di Navier.
Mi chiedevano di fornirgli informazioni tecniche, documenti, equipaggiamento. Di segnalargli eventuali avvistamenti di forze tedesche o della milizia francese, eventuali movimenti di materiali o personaggi con un qualche ruolo.
Le mie assegnazioni nella resistenza non erano mai al di fuori dell'ambiente dell'ufficio tecnico dipartimentale. Al massimo, mi veniva chiesto di portare i documenti richiesti con me, recarmi in un certo caffè e, all'arrivo di una persona che mi avevano descritto, andarmene lasciandoli nascosti in un giornale al mio tavolo, dove la persona prontamente si sedeva senza scambiare con me neanche uno sguardo. In un paio di occasioni mi fu chiesto di lasciare aperti magazzini e rimesse, ma nulla di più.

Anche come ribelle, svolgevo compiti di passacarte e topo di biblioteca, ma qualcosa di particolare mi stava accadendo. Lo sentivo dentro di me, cresceva, qualcosa di nuovo e di mai provato prima: adesso finalmente facevo qualcosa di coerente con quel che pensavo,adesso finalmente le mie azioni erano riflesso di ciò che volevo.
Non importava il fatto che mi avessero spinto a iniziare con malcelate minacce, non ci avevo messo molto a convincermi di star facendo la cosa giusta, e lo facevo volentieri. Pur comportando pericoli per la mia vita, o forse proprio per questo, il fatto di aver scelto per la mia vita uno scopo, un fine determinato oltre il semplice sussistere restando a galla nel mondo perso nella follia della guerra, mi faceva star meglio.
Adesso, finalmente, non aspettavo più.

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